“Vengo da Caldogno, un piccolo paese alle porte di Vicenza. Diecimila abitanti, aria buona. Qui sono nato il 18 febbraio 1967 in via Marconi n° 3, alle ore 18.15.
Mio papà si chiama Florindo, mia mamma Matilde. Sono il sesto di otto fratelli. Una grande e bella famiglia, molto sportiva.
Papà ha giocato qualche anno in una squadretta di calcio dilettanti, poi è diventato un ciclista, amava molto la bici.
Mi hanno chiamato Roberto perché papà aveva due idoli: Boninsegna dell’Inter e Bettega della Juve. Quindi Roberto, come loro.
Da bambino ero esile e molto sensibile. Piangevo quando sentivo passare le ambulanze. Ero anche un po timido, il giusto. Ero abbastanza testardo, un malato di calcio. Giocavo con tutto quello che trovavo: palline da tennis, carta bagnata e poi indurita sul termosifone. Giocavo nel corridoio di casa, facevo gol da solo (nella porta aperta del bagno), urlavo e poi facevo la radiocronaca.
Mi allenavo a tirare le punizioni mirando i lampioni della strada; una volta, colpendone uno, mi ritrovai scherzosamente inseguito dal maresciallo dei carabinieri.
Il mio primo allenatore si chiamava Zenere, era il fornaio del paese. Il vicepresidente era un idraulico. Sul Campetto c’era una scritta a grandi caratteri: «Chi non si presenta non giocherà mai più». Io mi presentavo quasi sempre, giocavo, mi divertivo. Mi diceva: ‘tu sei il mio Zico’.
Mi madre è stata un angelo, mi è stata molto vicina. In ospedale, dopo le operazioni, stavo malissimo. Non potevo prendere antidolorifici e il dolore mi trapassava il cranio. Una volta mi sono girato verso di lei, che mi stava accanto, e le ho detto: ‘Mamma, sto malissimo. Se mi vuoi bene uccidimi perché io non ce la faccio più’. Lei mi accarezzava: ‘Non fare lo scemo, eh? Dai dai, tornerai come prima. Più bello e più forte’.
Con mia moglie Andreina ci conosciamo da piccoli. Avevamo 15 anni, abitava vicino casa mia, veniva nella mia scuola. Andreina all’inizio ha fatto fatica ad accettare la mia fede nel buddismo. Poi, quando ha capito che la fede per me era importante, si è avvicinata e abbiamo pregato insieme. La fede mi ha aiutato molto nella mia carriera. L’allenamento spirituale al coraggio mi ha fatto sopportare il dolore. Avevo male, sempre male. Ma non importava. Sono stato male molti anni, ma sono andato in campo. Se avessi dovuto giocare soltanto quando stavo bene, con quella gamba, con quelle ginocchia, avrei fatto due, tre partite all’anno. E invece ho resistito, mi è andata bene. Molti miei amici sono stati più sfortunati e hanno smesso subito”.
[Roberto Baggio]